Reduce da Hanoi e dal Golfo del Tonchino, tutte le volte che torno a casa mi trovo a riflettere sull'Asia e sul fascino che mi proietta.
Appena giunta ad Hanoi, come già mi era capitato in passato quando, una sera, sbarcai a Yangoon, capitale della Birmania, mi sono istintivamente domandata cosa mai sono venuta a fare in un posto così malandato.
Raggiungo con il taxi l'albergo che ho prenotato per tre notti e il mio stato d'animo addirittura peggiora, nonostante la gentilezza, più autentica che professionale, della persona alla reception, dell'inserviente che mi prende le valigie e di quello che mi accoglie per aprirmi ogni sorta di portone.
Salgo, con l'ascensore, nove piani di questo particolare e ben tenuto edificio nel centro della città vecchia che, come la maggior parte delle abitazioni che ho incontrato sulla strada, dall'aeroporto a qui, è stretto e altissimo. Se non fosse che si sviluppa, per svariati metri, anche in profondità, guardandolo dal ciglio della strada si direbbe, piuttosto, una torre, e si penserebbe che una buona parte di vietnamiti viva dentro torri fatiscenti.
Mi è stato detto che il motivo della particolare architettura vietnamita è di natura erariale: cioè quanta maggiore è la superficie che viene occupata sul fronte stradale, tanto più alto è il balzello che ti chiede lo Stato.
La giornta è grigia, a tratti viene giù qualche goccia di pioggia. La camera che mi hanno assegnato sa un pò di muffa ma è ampia e piena di specchi, c'è pure un angolo attrezzato a salotto con postazione internet. In più c'è un terrazzo che dà sui tetti di questa grande scalcinata città. Mi piace molto stare seduta qui dove il vento soffia ma la temperatura è calda e i rumori dalle vie giungono ovattati.
Appena giunta ad Hanoi, come già mi era capitato in passato quando, una sera, sbarcai a Yangoon, capitale della Birmania, mi sono istintivamente domandata cosa mai sono venuta a fare in un posto così malandato.
Raggiungo con il taxi l'albergo che ho prenotato per tre notti e il mio stato d'animo addirittura peggiora, nonostante la gentilezza, più autentica che professionale, della persona alla reception, dell'inserviente che mi prende le valigie e di quello che mi accoglie per aprirmi ogni sorta di portone.
Salgo, con l'ascensore, nove piani di questo particolare e ben tenuto edificio nel centro della città vecchia che, come la maggior parte delle abitazioni che ho incontrato sulla strada, dall'aeroporto a qui, è stretto e altissimo. Se non fosse che si sviluppa, per svariati metri, anche in profondità, guardandolo dal ciglio della strada si direbbe, piuttosto, una torre, e si penserebbe che una buona parte di vietnamiti viva dentro torri fatiscenti.
Mi è stato detto che il motivo della particolare architettura vietnamita è di natura erariale: cioè quanta maggiore è la superficie che viene occupata sul fronte stradale, tanto più alto è il balzello che ti chiede lo Stato.
La giornta è grigia, a tratti viene giù qualche goccia di pioggia. La camera che mi hanno assegnato sa un pò di muffa ma è ampia e piena di specchi, c'è pure un angolo attrezzato a salotto con postazione internet. In più c'è un terrazzo che dà sui tetti di questa grande scalcinata città. Mi piace molto stare seduta qui dove il vento soffia ma la temperatura è calda e i rumori dalle vie giungono ovattati.
Mi decido a scendere nel caos cittadino.
La cosa che più mi colpisce è il flusso continuo di centinaia di motorini che, initerrottamente, percorrono le strade, apparententemente senza regole (che forse ci saranno ma che non si intuiscono).
E' un torrente inquinato in piena di persone e vecchi motori in perpetuo e disordinato movimento. Nessuno ti dà la precedenza: se vuoi attraversare ti butti e li schivi, come loro schiveranno te, con maggiore abilità.
Le prime volte che decidi di passare dall'altro lato della strada rimani inebetito sul ciglio di partenza pensando: - "di sicuro, prima o poi, il traffico diminuirà, anzi, forse cesserà, o, comunque, al mio passaggio, si fermerà" - poi capisci che se non ti dai una mossa, accettando il rischio di venire investito in Vietnam, rimani lì fino all'ora di cena.
Inoltre, sulla testa, oltre che sugli alberi e sui muri degli edifici, passano, ancorati in un modo che solo Dio sa, enormi fasci di fili dell'alta tensione, e spuntano qua e là gli altoparlanti per i proclami del partito.
Il commercio è però praticato ovunque e su larga scala e gli ambulati, per lo più donne cariche come somari, si spostano, principlamente, in bicicletta, indossando quel tipico cappello a cono che, sino a ora, pensavo fosse più una nota di colore per turisti che un elemento abituale dell'abbigliamento contadino.
Mi piacciono soprattutto le fioraie in bicicletta, stracariche di fiori bellissimi e coloratissimi, e le ragazze, a piedi, che smerciano dolcetti fritti dentro cabaret di paglia larghi e piatti.
La gente mangia ai lati della strada seduta fuori dagli ingressi ai negozi, accovacciata su sedie di plastica per bambini.
La mattina mi alzo presto e faccio colazione all'ultimo piano dell'albergo in cui alloggio. Il cielo è, come sempre, grigio, ma sono affacciata da una terrazza che domina la parte di città antistante, di cui contemplo i tetti, e mi torna in mente, un'altra volta, Yangoon.
Affascinata dalla città che mi si apre davanti, dalla bontà e raffinatezza, per disposizione dei cibi e abbinamento di colori, delle portate servite al tavolo dalla cameriera, come sempre mite e gentile, rimango per un attimo in uno stato si stupore, quasi senza fiato.
- "Ecco", penso, - "Hanoi mi ha conquistato".
Poi, d'un tratto, riprende incosapevolmente vita la parte più occidentale di me. Me ne accorgo perchè, all'improvviso, mi balena un pensiero: -"è sì....." - ragiono: - "quel maglione di Hedi Slimane lo devo proprio comprare".
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